Conservo da qualche parte una fantastica vecchia fotografia
di mio nonno: è nel corso principale del paesino dove risiedo anch’io tuttora e
gli alleati hanno finalmente liberato la nazione. Anche nel mio paesino, la
gente è nelle strade in festa, circonda le camionette dei partigiani,
finalmente liberi di uscire allo scoperto, giù dai boschi di montagne e
colline. In primo piano, a precedere disordinatamente i partigiani, c’è una
manica di bambini e ragazzini, perlopiù maschi, tra cui, appunto, mio nonno.
Questa foto mi ha sempre lasciato piuttosto interdetto, con una sensazione di
disarmonia addosso.
Mio nonno è sempre stato un tipo freddo. Il giorno in cui si
riportò a casa quella foto, che qualcuno gli aveva regalato, lo ricordo come
totalmente disinteressato. Devo avergli fatto una qualche domanda, non ricordo
quale, ma non avevo ricevuto una risposta che giudicherei consona
all’argomentazione. Deve avermi risposto con una mezza sillaba, o forse
soltanto con un qualche onomatopea, un verso, una vocale. Non sembrava
malinconico o ferito dal ricordo, no, sembrava proprio che non gliene fregasse
niente.
Dietro la foto, chi gliela aveva regalata ci aveva messo
anche una dedica: si citava un suo, di mio nonno intendo, presunto eroismo, un
grazie per esserci stato, qualcosa del genere. La dedica lo elevava a qualcosa
che forse non era mai stato, e magari da questo veniva il suo distacco, il
menefreghismo. Lì cominciai a capire che doveva esserci qualcosa di non
puntuale nei resoconti storici. Più tardi mi sono fatto l’idea che la grandezza
della Resistenza italiana poteva andare persa per via della sua stessa
canonica, cioè standardizzata, glorificazione.
Io credo che la Resistenza sia stata senza ombra di dubbio
il più forte, spontaneo, coraggioso, entusiasmante movimento popolare del
ventesimo secolo, perlomeno nella nostra nazione. Le gesta di questi ventenni
sono state un qualcosa di talmente puro e autentico da apparire quasi
mitologiche. Io non credo certi racconti potrebbero sfigurare di fronte a
quelli omerici. Gente che faceva la staffetta disarmata per portare
informazioni a dieci chilometri di distanza, una sfrontatezza da far
rabbrividire, una forza d’animo che noi tutti ci sogniamo.
Ma ormai ce ne ricordiamo sì e no soltanto il 25 aprile, e
credo più che altro perché la maggior parte di noi non lavora. Possiamo parlare
di società andata a rotoli, di televisiomani, di assenza di valori, ma secondo
me possiamo anche parlare di quel tipo di atteggiamento che aveva mio nonno, possiamo
parlare del rendere eroi chi eroe non era, né tantomeno pretendeva di essere.
Mio nonno, aveva pressappoco quindici anni, quel giorno era
lì perché c’era una festa, e nient’altro. Mio nonno si faceva raccontare la
storia da Bruno Vespa e di quegli anni ha sempre e solo parlato di come del
porco in casa non si buttasse via nulla, di com’era croccante l’orecchio di
maiale alla brace o qualcosa del genere.
Mio nonno si riferì anche a quegli anni quando mi portò a
vedere la casa dove aveva abitato con la famiglia, quella stessa famiglia di
cui, in quei giorni, era ormai l’ultimo superstite, la sua famiglia che non
c’era più. Mio nonno un paio di volte ancora parlò di quegli anni, ma mai per
gli avvenimenti storici che li contraddistinsero, quanto piuttosto per quelli
quotidiani che scandirono la sua vita.
Mio nonno era un ragazzino di campagna andato in paese per
una festa. Quella stessa sera sarà tornato a casa dalla famiglia sovraeccitato
per gli schiamazzi delle persone, per aver corso per le strade, per essere
stato tra tanti amici.
E quello aveva a che fare con la nostra liberazione, quella
festa c’era perché eravamo liberi, ma era la vita di una nazione, non di un
uomo.
Per questo, credo, quando la gente scambiava mio nonno per un
eroe lui ci rimaneva stranito, perché quella vita semplice e intima e unica che
non sarebbe mai più tornata gli veniva cancellata a colpi di glorificazione, e
ridipinta secondo i colori della storia universale.
Per quanto dai tratti divini, la celebrazione della Resistenza
avrebbe bisogno di tanta discrezione, di tanta autenticità.
Basterebbe parlarne un po’ di meno quando tutti ne parlano,
il 25 aprile, e un po’ di più quando tutti se ne dimenticano, cioè il resto
dell’anno.
Perché poi diventa tutta una caricatura, una maschera di ciò che è
stato.