venerdì 26 aprile 2013

La Resistenza, il giorno dopo


Conservo da qualche parte una fantastica vecchia fotografia di mio nonno: è nel corso principale del paesino dove risiedo anch’io tuttora e gli alleati hanno finalmente liberato la nazione. Anche nel mio paesino, la gente è nelle strade in festa, circonda le camionette dei partigiani, finalmente liberi di uscire allo scoperto, giù dai boschi di montagne e colline. In primo piano, a precedere disordinatamente i partigiani, c’è una manica di bambini e ragazzini, perlopiù maschi, tra cui, appunto, mio nonno. Questa foto mi ha sempre lasciato piuttosto interdetto, con una sensazione di disarmonia addosso.
Mio nonno è sempre stato un tipo freddo. Il giorno in cui si riportò a casa quella foto, che qualcuno gli aveva regalato, lo ricordo come totalmente disinteressato. Devo avergli fatto una qualche domanda, non ricordo quale, ma non avevo ricevuto una risposta che giudicherei consona all’argomentazione. Deve avermi risposto con una mezza sillaba, o forse soltanto con un qualche onomatopea, un verso, una vocale. Non sembrava malinconico o ferito dal ricordo, no, sembrava proprio che non gliene fregasse niente.
Dietro la foto, chi gliela aveva regalata ci aveva messo anche una dedica: si citava un suo, di mio nonno intendo, presunto eroismo, un grazie per esserci stato, qualcosa del genere. La dedica lo elevava a qualcosa che forse non era mai stato, e magari da questo veniva il suo distacco, il menefreghismo. Lì cominciai a capire che doveva esserci qualcosa di non puntuale nei resoconti storici. Più tardi mi sono fatto l’idea che la grandezza della Resistenza italiana poteva andare persa per via della sua stessa canonica, cioè standardizzata, glorificazione.
Io credo che la Resistenza sia stata senza ombra di dubbio il più forte, spontaneo, coraggioso, entusiasmante movimento popolare del ventesimo secolo, perlomeno nella nostra nazione. Le gesta di questi ventenni sono state un qualcosa di talmente puro e autentico da apparire quasi mitologiche. Io non credo certi racconti potrebbero sfigurare di fronte a quelli omerici. Gente che faceva la staffetta disarmata per portare informazioni a dieci chilometri di distanza, una sfrontatezza da far rabbrividire, una forza d’animo che noi tutti ci sogniamo.
Ma ormai ce ne ricordiamo sì e no soltanto il 25 aprile, e credo più che altro perché la maggior parte di noi non lavora. Possiamo parlare di società andata a rotoli, di televisiomani, di assenza di valori, ma secondo me possiamo anche parlare di quel tipo di atteggiamento che aveva mio nonno, possiamo parlare del rendere eroi chi eroe non era, né tantomeno pretendeva di essere.
Mio nonno, aveva pressappoco quindici anni, quel giorno era lì perché c’era una festa, e nient’altro. Mio nonno si faceva raccontare la storia da Bruno Vespa e di quegli anni ha sempre e solo parlato di come del porco in casa non si buttasse via nulla, di com’era croccante l’orecchio di maiale alla brace o qualcosa del genere.
Mio nonno si riferì anche a quegli anni quando mi portò a vedere la casa dove aveva abitato con la famiglia, quella stessa famiglia di cui, in quei giorni, era ormai l’ultimo superstite, la sua famiglia che non c’era più. Mio nonno un paio di volte ancora parlò di quegli anni, ma mai per gli avvenimenti storici che li contraddistinsero, quanto piuttosto per quelli quotidiani che scandirono la sua vita.
Mio nonno era un ragazzino di campagna andato in paese per una festa. Quella stessa sera sarà tornato a casa dalla famiglia sovraeccitato per gli schiamazzi delle persone, per aver corso per le strade, per essere stato tra tanti amici.
E quello aveva a che fare con la nostra liberazione, quella festa c’era perché eravamo liberi, ma era la vita di una nazione, non di un uomo.
Per questo, credo, quando la gente scambiava mio nonno per un eroe lui ci rimaneva stranito, perché quella vita semplice e intima e unica che non sarebbe mai più tornata gli veniva cancellata a colpi di glorificazione, e ridipinta secondo i colori della storia universale.
Per quanto dai tratti divini, la celebrazione della Resistenza avrebbe bisogno di tanta discrezione, di tanta autenticità.
Basterebbe parlarne un po’ di meno quando tutti ne parlano, il 25 aprile, e un po’ di più quando tutti se ne dimenticano, cioè il resto dell’anno.
Perché poi diventa tutta una caricatura, una maschera di ciò che è stato.

martedì 23 aprile 2013

Fottuta utopia, utopia fottimi



L’utopia è un vizio. E’ il vizio di forma che devia il percorso dell’essere umano in genere, e il vizio personale di certe persone in particolare. La devianza di cui parlo ha a che fare con il desiderare qualcosa che non c’è, o che non tornerà. O anche vette inarrivabili. Se è pur vero che una buona, o gigante dose di volontà possa far raggiungere eccellenti obiettivi, è altrettanto vero che gli obiettivi che un uomo si pone sono in genere nell’ordine delle centinaia, delle migliaia, o addirittura sono infiniti. Poca gente è tanto fortunata da riuscire a pensare al presente: la maggior parte delle persone, come me, si rivolge al passato per i ricordi, e al futuro per i sogni. Oppure fa una commistione delle due e sogna di rivivere un ricordo. Poco male, insomma, non si scappa e tanto vale sguazzarci dentro, ai ricordi, ai sogni. Non riesco a vivere nel presente, sono un lamentoso, e questo è un lato di me che mi preme molto mozzare. Nella lista dei vorrei, dei sogni, appunto, tanto per tenere il filo del discorso, ci metto tranquillamente che vorrei evitare di dialogare troppo col passato, e di chiudere gli occhi e volare con la fantasia quando penso al futuro. Peraltro, vorrei anche evitare di avere troppi vorrei, ma sono un tipo senza memoria, quindi mi piacciono le liste, perché mi sono necessarie. Eccoci qua, l’utopia è il mio vizio di forma e il mio vizio, inteso come perversione. Di sicuro è una perversione. Per dirla tutta, insomma, questa utopia che ho dentro, come tutte le perversioni, tende a rendermi inaffettivo verso tutto ciò che non la riguarda. Ad esempio, molte cose del presente mi sfuggono tra le mani, anche i rapporti personali, anche la puntualità di cui avrebbe bisogno il quotidiano. La questione si presenta in maniera piuttosto negativa, perché davvero il tempo scorre veloce, le estati volano, i natali anche e uno è sempre troppo indietro o troppo avanti per goderne appieno.
Poi, visto che sono un ottimista, c’è anche la parte positivissima, ci mancherebbe. E’ quella che ha a che fare con la visionarietà dell’essere utopici, dell’essere spiriti del natale passato e del natale futuro.
Essere visionari è fantastico. Non parlo propriamente di me, perché non so esserlo come vorrei, ma certi geni hanno una capacità di guardare non solo avanti, ma tutt’intorno a sé che mette paura, che entusiasma, che ispira, anche. Il presente è il tempo del reale, del come è, della materia, è stasi, sì, è stasi. Gli altri due tempi, invece, non essendoci più o non essendoci ancora, sono la dimora di spiriti eterei e fragili e di tutte le poesie del mondo. Si lasciano leggere, parafrasare, plasmare, mescolare, scacciare, si fanno anche richiamare.
Nel passato e nel futuro un sentimento tanto “del presente” come l’orgoglio non ha potere.
L’orgoglio al giorno d’oggi è la rovina di parecchie faccende.
Dell’amore, per esempio.
E dire che nasce proprio nel passato, per via di esperienze pregresse, o dal futuro, per paura di ciò che potrebbe essere.

domenica 21 aprile 2013

There are no Freud's dogmas

Leave it to my family!

The sunny side of the street

Behind my happiness, he's fucking thinking of her

I lie to you sometimes 

I love my mum and I'll buy a dog

martedì 16 aprile 2013

Rise a wall(paper) for all your dirty secrets

Check it up, check it up, check it up, check it up, check it up. You should had checked it up, girl...

Oh, if you only know what there is inside my head...

Lunar dreaming express

This is your power to see things differently

Trophy

venerdì 12 aprile 2013

tutto scorre

Cover me with plastic black (a plastic colour, that is to say)


tutto scorre


Non si picchia soltanto quando si ha la certezza di vincere. Quello lo fanno i conigli, quelli veri. Si picchia quando si ha certezza di doverlo fare, punto e basta. Prendiamo, ci buttiamo nella mischia e ne usciamo con le ossa rotte ma quelle non contano niente. Non conta niente avere le ossa rotte o le ossa intatte. La paura di perdere le battaglie è la vera nemica suprema dell’umanità. Gente che si è rintanata e annullata soltanto perché qualcuno urlava più forte di loro, cani randagi, topi di fogna, padroni. Ma poi tutto scorre, e uno fa sempre in tempo a raccapezzarsici e i ruoli possono cambiare e chiunque può cominciare ad urlare e perdere la propria purezza innocente, e chiunque può picchiare soltanto se sa che vincerà. Tutto scorre.

Mi capita di incontrare gente che non aspetta altro che gli si presenti l’occasione di giustificare un proprio atto di violenza. Intendo dire, in genere, che certi proprio non aspettano altro che una minima scusa per potersi permettere un atto di violenza, di potersi imbarbarire e poi dire che le proprie vittime se lo sono meritato. Anche io, come loro, ho certe volte questi istinti. Un giorno in cui pensavo ci fosse in essere un crimine, mi sono scoperto a sperare di beccare il criminale con le mani in pasta, e linciarlo, picchiarlo per sfogarmi, picchiarlo per non reprimermi. Il pensiero di poter scovare un ladro dentro casa certe volte, con certi stati d’animo, mi risulta affascinante. Nel senso, la cosa importante non sembra essere quella di evitare che qualcuno mi rubi in casa, ma piuttosto mi viene alla ribalta il desiderio di poterlo incontrare, e malmenarlo, e non avrei freni, se non evitare la sua morte, perché la mia azione mi si presenterebbe giustificata. Quanto mi fa paura questa cosa, non sono l’unico a pensarla così.
Voglio stare attento che non mi presenti l’occasione di essere un barbaro, e che possa non costruirmela mai. Inoltre, voglio stare attento a non dare mai a nessuno neppure la minima scusa per imbarbarirsi. Ci sarà anche un modo per non essere né carnefice né vittima. Ma mi pare di no, perché tutto scorre, e a seconda delle stagioni propendiamo più verso una o l’altra parte, ma non stiamo mai nel mezzo. Nessuno può essere mai fermo nella neutralità, perché tutto scorre. Insomma, già lo sappiamo.

Ho incontrato luoghi, persone, situazioni, sentimenti e bene o male me li ho vissuti, chi più chi meno, molti non tanto o come avrei voluto, ma stanno comunque tutti dentro di me. Molte di queste cose meriterebbero un posto migliore e più grande, ma è così che vanno le faccende, loro non recriminano, e io di certo non mi ci fascio la testa, con i rimpianti. Proprio per niente. Tutto va e viene, tutto scorre. Luoghi, persone, situazioni, sentimenti. Solo un De Beers è per sempre, ma di sicuro non lo è quello che gli ruota intorno. Una pietra, e mille fattori contingenti. Tutto scorre, come diceva Eraclito, o il suo discepolo, o Simplicio. Guardiamo quel fiume e l’acqua non è mai la stessa. Guardiamo quel diamante, e noi non siamo mai gli stessi. Andiamo, veniamo, stiamo fermi desiderando di andare, di venire. Proprio una palla al piede, questo non smettere mai di girare, questo non smettere mai d’imparare. Per me non è una bella cosa proprio per niente. Vorrei smettere di sbagliare, e smettere di imparare, anche se non so un sacco di cose. Un giorno sarò arrivato a conoscere delle cose che mi soddisferanno e starò bene con quelle e non vorrò imparare più niente. E vorrei proprio che questo giorno possa arrivare. Da vecchio non sarò saggio. Sarò mezzo pieno agli occhi di tutti, ma pieno fino all’orlo agli occhi miei. Se proprio tutto deve scorrere, non voglio che sia un problema mio.

Vorrei amare tutti per sempre, come li ho amati nel pieno del sentimento che ho nutrito per loro.
Vorrei sentire i luoghi che ho visitato o in cui ho vissuto come li ho sentiti nel momento in cui erano un tutt’uno con me, nei giorni più felici in cui vi sono stato.
Vorrei che i miei sentimenti siano sempre al massimo verso qualunque cosa, e voglio che siano sentimenti di amore.
Voglio che le situazioni più belle che ho vissuto possano ardere vive per sempre dentro di me, e non perdersi nello scialacquio del tempo, nello scialacquio di accadimenti senza importanza. Vorrei poter salire in soffitta e trovarle ancora tutte lì, accatastate in ordine. Come fossero vhs vorrei poterle scegliere a piacimento in questo o quell’altro giorno, e rivivere la mia nascita, il mio primo bacio, quegli abbracci, i sorrisi di tante persone, le voci, i profumi, le passeggiate nel bosco, il gelato.

Perché a me tutto questo scorrere fa veramente schifo.

mercoledì 10 aprile 2013

The light was filled with so many things...

Bye bye dark woman...the more we go far from you, the more we bright

Can you see them?

The inefficient hero


Save the story of a mother and wife bearing something horrible only to keep her family safe
Yes, we're happy but what is this thing on us?




venerdì 5 aprile 2013

La crisi è anche una notizia al radiogiornale


In giro con la macchina più del solito, questi giorni, mi è capitato di imbattermi nei vari radiogiornali. Posto che ho tranciato via dalla mia vita la televisione, come certi di voi sicuramente sapranno, ho fatto una scoperta inquietante per me, e preoccupante davvero per tutti noi.
Ho scoperto la sottigliezza del terrore.
Incuneato nella nostra quotidianità senza che ce ne rendiamo neanche conto, ci carezza con voci vellutate, voci che neanche loro sanno precisamente cosa stiano dicendo, e facendo, soprattutto.
Il radiogiornale, mentre fuori, nella vita a tre dimensioni, intendo, c'era il clima da festività, e la gente correva (chi più chi meno) a riunirsi con parenti e amici e cari di qualsiasi genere, sfoggiava a catena il pericolo che c'è dietro l'inutilità delle cose. Il pericolo dell'inutilità delle cose.
Ho ascoltato, in media, cinque minuti di ognuno di quei radiogiornali, e su dieci parole, ogni tre o quattro la parola che veniva fuori era quella che abbiamo dentro tutti noi, quella che ci accapona la pelle, questa qua: "crisi". Anzi, aggiungono l'articolo determinativo, "la crisi", dando oramai per scontato che tutti sappiano di cosa stiano parlando. Io pure dico sempre "la crisi", però non ho la più pallida idea di cosa sia. Voglio dire, lo so a livello economico e puramente numerale, ma non riesco a capire l'endemia che questa espressione comporta.
Perché al radiogiornale ci dicono che la colomba pasquale ha venduto l'8% in meno dell'anno scorso?
Perché ci dicono che la gente non viaggia più perché non ha i soldi e quindi sta a casa con i parenti o nelle città d'arte più vicine?
Perché, a cosa serve, informarci che gli italiani preferiscono le barrette di cioccolato agli uovi veri e propri perché costano meno?
A cosa serve tutto ciò? Perché questo parlarci tramite stronzate di un'epidemia totalmente seria?
Io sento dire "la crisi" da voci allegre e sopra quella sento dirci aneddoti ma mai sento dire "la crisi, che è derivata da..."; "la crisi è una malattia che...". Sento soltanto dire che andiamo in vacanza di meno, che abbiamo paura delle banche, che pensiamo che la benzina costi troppo e quindi non viaggiamo più, che compriamo più pandori che panettoni, che abbiamo cominciato a fare il pane in casa perché il pane al supermercato non possiamo permettercelo, che il cinema è in crisi perché non siamo in grado di pagare troppo spesso in un mese l'elevato prezzo del biglietto d'ingresso, sento dire che sempre noi compriamo meno libri perché costano tanto, che preferiamo la grande distribuzione alimentare a quella a chilometro zero perché va bene la salute derivante da ingredienti genuini ma non possiamo pagarla, che la nostra spesa media è diminuita per i dolci e aumentata per i beni di prima necessità, che compriamo meno riviste, che gli abbonamenti sky sono in diminuzione, e via così, via fino all'infinito.
Io sento sempre in giro delle voci che parlano di "noi". Parlano di noi usando però la terza persona plurale.
"Gli italiani spendono meno nel vestire..."
"Gli italiani spendono meno nella cultura..."
"Gli italiani spendo meno per le gite fuori porta..."
Tutto questo perché c'è la crisi.
Come diceva giustamente qualcuno con cui discutevo di questa cosa, sembra di essere totalmente in "1984" di Orwell.
Mi sveglio, accendo la radio e mi si ricorda che cazzo! gli italiani hanno la crisi.
Gli italiani non comprano più mutande di lusso.
E allora mi dico porca troia io sono italiano e che cazzo sto facendo? Ancora viaggio, ancora leggo, ancora vesto mutande di lusso con la crisi?
Sarei spinto a dirmi, sono italiano e ancora sorrido?
Gli italiani come me mangiano meno colomba, uovo di pasqua, torrone, panettone, pandoro, agnello, pizza e io che cazzo sorrido ancora?
Mi dovrei mettere in crisi, se fossi più amante delle stronzate.
Dovrei prendere e non spendere, prendere e nascondere...cosa? Il denaro, sotto al materasso.
Ma poi sarebbe come nascondere me stesso.
Sarebbe come piangere sul latte versato e negarmi la possibilità di comprarne dell'altro.
Io invece finché non ci sbatto la testa compro latte a vagonate.
Sorrido anche se questi italiani se magnano meno colomba, insomma. Non è poi così grave.
Conoscete la storia della formica e della cicala, no? D'accordo, io sarò pure troppo cicala, ma di sicuro non voglio essere una formica a priori, per partito preso, per delle notizie inutili del radiogiornale.

mercoledì 3 aprile 2013

A wish, a memoir, a fight

1. A wish. Cut my big rabbit face.
2. A memoir. This is our city I remember.
3. A fight. I do want an elephant of mine.