domenica 19 maggio 2013

L'ostinazione nell'essere schiavi

 "Il mondo spezza tutti quanti e poi alcuni sono forti nei punti spezzati"
                                                                                    Ernest Hemingway

Il periodo in cui siamo potrebbe però ascriverci tutti al ruolo di schiavi al quale faccio riferimento nel titolo.
Crisi. Crisi. Crisi. Bla. Bla. Bla. Sentiamo solo quello, ci obbligano a sentirci non fortunati di avere un lavoro, ma debitori a chi ce lo dà. Guardate che il limite è molto labile a parole, ma nella mia testa apre voragini, poi non so nella vostra.
Il concetto dell' "essere fortunato" ha nella storia sempre un'accezione positiva. Sì, poi ci sta anche che alcuni siano così fortunati, così culati, da meritarsi parecchi vaffanculo, ma di sicuro la cosa non ha alcuna timbrica cupa. La fortuna aiuta, la fortuna ci premia, la fortuna aiuta gli audaci. Un po' la fortuna ce la costruiamo, insomma, ce lo diciamo continuamente.
Il concetto dell' "essere debitore", invece, non può che essere negativo. Contiene aberrazione, resa, assoggettamento, obbligo.


Oramai determinati instillano la concezione che, nell'avere un lavoro, per mantenerci sull'esempio citato, io sia non fortunato o capace, ma debitore a qualcuno, debitore per il fatto che io sia lì, mentre fuori c'è la tempesta, fuori c'è il buio che avanza, fuori c'è la gente che si ammazza.
Beh, da questo atteggiamento possono così nascere le parvenze più tragiche, come il fatto che un datore di lavoro possa permettersi di chiedere straordinari non pagati, possa non assegnare ferie, possa non concedere permessi, possa strabordare di nero, "perché teniamoci il posto di lavoro che fuori c'è la fila e fuori è tutto un macello".
L'ostinazione, la meschina ostinazione di tentare la progettazione di schiavi.
Olivetti in un passato per niente lontano sosteneva che la maniera migliore per rendere grande un'azienda fosse quella di, prima che vantarne la grandezza, stimolare i propri dipendenti, acculturarli, arricchirli, circondarli di bello e di speranze. Si lavorava in fabbriche con grandi vetrate che davano su alberi, prati e cespugli. C'era luce. C'erano biblioteche, incontri, arte.
Il presente rema verso il contrario, verso il contrario più totale.
Nuove tecniche aziendali, innovative teorie di progettazione umana hanno radicato in quasi tutti la convinzione che il dipendente vada mutilato. No, non usano questo termine. Voglio dire, non ne parlano neanche forse, ma lo mettono in atto. Sono assolutamente convinto che la metà di loro neanche si rendano conto di quello che stanno facendo. Questi prendono grossi tomi, i manuali di "imprenditori di successo", partecipano a convegni motivazionali e poi scendono con queste idee marce però "all'avanguardia" sopra tutti noi milioni di persone e ci costringono a sperimentarle.
Non riescono neanche a parlare italiano, ma viene dato loro il potere di muoverci, di condizionarci, di mancarci di rispetto.
Ci fanno credere che i nostri padroni siano signori celesti scesi in terra a firmarci la busta paga. Ci rendono non fortunati, ma debitori, appunto.
Il punto è che un fortunato si sente pieno di vita, mentre un debitore si sente pieno di morte.

Un fortunato potrebbe anche decidere un giorno di volare con i suoi sogni e distinguere tra la sua vita e il suo lavoro, e fare progetti, e non sentirsi costretto ad ubbidire, potrebbe cantare e non stare zitto.
Un debitore invece esce di casa trascinandosi all'auto, poi entra a lavoro e prende a marciare, marcia fino a quando ce la fa e fino a quando gli finisce il turno. Di nuovo fuori, si trascina, si trascina per la vita, non badando al fatto di non viverla. Lui sa che la sua fortuna risiede nel lavoro, il suo obiettivo è mantenerselo.
D'altronde, chi non vorrebbe sedere al cospetto degli dei della busta paga?
Quelli che ci regalano una famiglia, un cane, una casa, una macchina.
Quelli che fanno la magia e non ci fanno pensare che avremmo certamente raggiunto tutto questo anche senza di loro.
Perché in un modo o nell'altro ce l'avremmo fatta, questo è fuori di dubbio.
Senza di loro avremmo raggiunto tutto.