sabato 9 novembre 2013

Metodologia ipotetica, ma anche parecchio reale, di mercato



Lettera quasi vera:

Buongiorno colleghi.
La vostra Cooperativa ha deciso questa mattina che è giunto il momento di apporre un po’ di ordine alla vita commerciale dell’ultima cittadina che è stata messa sotto esame. Analizzando le indagini di mercato e confrontando i dati con quelli delle cittadine affini (tramite i soliti criteri, calcolati sulla cittadinanza, di età media, istruzione media, ore quotidiane di sintonizzazione televisiva e relativi sottoinsiemi, posizione geografica) abbiamo convenuto, in sede di consiglio, che la dottrina di spesa stia subendo uno sbrodolamento verso i prodotti eco-compatibili e/o biologici, e verso la merceologia che presenti basso costo e scarsa qualità. Il consiglio ha deciso dunque di uniformare a livello nazionale l’offerta di prodotti “verdi”, consigliando alle aziende produttrici un maggiore investimento nella propaganda ecologica e nella messa a punto di articoli che facciano del rispetto per l’ambiente la propria bandiera. Abbiamo altresì fatto presente alle suddette aziende l’importanza rivestita dall’adottamento di una vera e propria politica di clonazione delle strategie commerciali (ivi inclusi dunque la filosofia del prodotto, i caratteri delle sue etichette, lo spirito dietro a tali etichette e la loro estetica) verso quei produttori pionieri nel campo dell’eco-compatibile e/o biologico, in modo da poter riequilibrare gli odierni scompensi a loro favore confondendo il cliente nella scelta. Tali produttori sono già stati avvertiti ed hanno logicamente dato il loro assenso. A giusta ricompensa, ognuno di loro riceverà, per due articoli della gamma che hanno in commercio ed in aggiunta a quelli già titolati, il canonico attestato di “prodotto dell’anno eletto dai consumatori”. La qualifica avrà durata di due anni (dunque un attestato per anno), da diluirsi nell’arco di quattro. Così come al solito, i produttori titolati avranno dunque la facoltà di scegliere in quali dei quattro anni essere premiati.
Il fine ultimo di questo primo punto strategico è quello di presentare al cliente una varietà di prodotti che non è una reale varietà. Ogni azienda produttrice avrà la propria gamma merceologica“verde”. Il consumatore non sarà dunque spinto, in virtù dei propri valori morali o degli allarmi climatici lanciati sui media, a premiare due produttori su quattro soltanto perché questi due produttori hanno rispetto per l’ambiente. Davanti ad uno scaffale di biscotti, per esempio, il consumatore dovrà trovare d’ora in avanti una miriade di prodotti ansiosi di ostentare la propria eco-compatibilità. Il mercato deve restare compatto, uniforme, una massa indistinguibile indirizzato ad una massa indistinguibile.
Per quanto riguarda i cosiddetti “discount”, questi magazzini enormi dove si vende merceologia d’importazione, si è convenuto presso la nostra sede che l’epidemia, perché di una sorta di epidemia di “low-cost”si tratta, potrà essere facilmente controllata instillando nei consumatori il sospetto che la propria salute, servendosi di prodotti discount in maniera prolungata nel tempo, né risentirà in maniera pesante e irreversibile. Parallelamente, si dovrà richiamare l’attenzione della popolazione su due punti riguardanti la sanità nazionale: suoi costi e sua fallibilità.
Il primo concetto dovrà essere immesso “sulla piazza” in maniera pedante e senza alcun sotterfugio, che non sia una copertura garantita da giornalisti, conduttori tv e blogger che urlino contro la “piaga dei costi alti della sanità”. Dovranno essere screditati medici ed infermieri, così come professori e specialisti tramite la pubblicazione dei loro compensi netti annui, subito confrontati con quelli di un operaio, un tassista, una donna delle pulizie, un commesso. Il tutto dovrà ruotare forzatamente intorno al concetto che la sanità è diventata un lusso per pochi. La gente sta morendo di fame e sotto il peso delle tasse, ma la sanità maligna non vede, non vuol vedere, se ne frega: pretende bonifici esosi per prendersi cura della vostra vita. I medici guidano auto lussuose. I medici vanno in vacanze alle Maldive. I medici non sono mai disponibili, la burocrazia vi attanaglia. Se volete una visita specialistica, anche urgente, bisognerà aspettare dei mesi. Se pagate, il giorno dopo siete su un lettino. E’ uno schifo, è tutto uno schifo.
Questo dovrà recepire la popolazione consumatrice. Il futuro non è nelle sue mani, la spesa è l’unico campo dove hanno l’illusione del libero arbitrio.
Il punto sulla fallibilità sanitaria. Si dovrà inserire nelle sotto-strutture del discorso massmediologico un filone di aneddoti e pensieri di protesta che vadano ad intaccare la fiducia dei cittadini verso l’apparato sanitario. Dovrà essere riportata una maggiore percentuale di fatti di cronaca nera inerenti ad ambiti ospedalieri: operazioni andate male; gente morta sotto i ferri; diagnosi errate; assegnazioni scorrette di medicinali; brutti effetti collaterali comparsi in seguito a cure specifiche; pazienti che potevano essere salvati ma che invece sono morti per la negligenza degli ospedali; tumori della pelle scambiati per scottature solari; anziani infartuati rimbalzati di ospedale in ospedale finché non sono morti in ambulanza; fratture ossee recidive; presenza di infermieri/angeli della morte; accanimento terapeutico a puro scopo sperimentale (si potrebbe accomunare tali fatti a quelli della Germania nazista: Hitler fa sempre effetto); condizioni igieniche degli ospedali da terzo mondo; pazienti costretti a vivere in barella, stazionando nelle corsie per giorni e giorni in attesa di un posto libero. Dovranno essere riportate testimonianze a iosa. Tali testimoni, dovranno essere scelti fra quelli che presentino caratteristiche più vicine a quelle del cittadino medio: difficoltà economiche, grammatica stentata, commozione per la propria condizione, acciacchi. Gli avvocati non generano solidarietà. In sede di consiglio abbiamo identificato i telegiornali come i mezzi più indicati alla diffusione di questo stato d’animo.
Ci aggiorneremo.

venerdì 26 luglio 2013

Credi che il mondo possa anche non essere un network?


L’eco del bosco, il richiamo della foresta, il silenzio delle foglie, lo sguardo della tigre rimandano a tutto un immaginario fantastico, ma molto eremitico, un aggettivo che nell’attuale era dei network virtuali ha sicuramente acquisito un’accezione negativa. La sovrainformazione è sempre stata un mio cruccio. Da piccolo, avevo appena imparato a leggere, mi lamentavo con i miei genitori per il fatto di non poter evitare di farlo. Il fatto di essere costretto a leggere tutto mi mandava fuori di testa: cartelli stradali, manifesti pubblicitari, insegne di imprese, volantini, strilloni dei giornali. Fu l’epoca in cui non mi fu più permesso di guardare come una volta, e credo me ne rendessi già conto. L’immaginazione lasciò troppo spazio all’informazione, a cominciare dalle sciocchezze: invece di fantasticare sul nome strambo di una data cittadina e sull’aspetto delle sue strade, dovetti per forza acquisire il fatto che quella cittadina stava ad appena quattro chilometri dalla mia, e che anche lei aveva una sagra, un barbiere e un ospedale. Insomma, scomparvero i draghi, gli arcieri che abitavano i suoi palazzi medievali e i tamburi ogni sera. A ripensarci, non fu proprio una sciocchezza.
Più in grande ma come allora, la sovrainformazione temo stia uccidendo grosse parti di me. Questo mi dà molto fastidio. La facilità con la quale possiamo esprimere un pensiero su facebook o goderci cento immagini proposteci da altrettante persone comincia ad essere fuorviante. Non credo per niente che la vicinanza che uno sente verso una persona dall’altra parte del mondo nello scrivergli una mail e mandargli una propria foto ogni mese sia davvero vicinanza. Credo piuttosto che si tratti di illusione, e cioè del sentimento più facile che uno possa provare. Meglio ancora, ho l’impressione che canali come i social network abbiano tanto successo perché propongono una facilitazione dei sentimenti e della nostra espressività: il “mi piace” ci dà l’impressione di aver espresso un’opinione; la fotografia ad una colazione ci fa credere di aver creato; lo scrivere “wow, ora tutti al mare spiaggia aspettaci” ci convince di passare una grande fantastica giornata. Tramite queste cose ci sfoghiamo ma il dubbio è questo: se non li avessimo, saremmo in grado di sfogarci meglio, cioè qualitativamente meglio? Esprimeremo un’opinione con almeno dieci parole, fotograferemo qualcosa che non sia cibo o piedi vestiti di scarpe, ci ingegneremo per passare davvero una grande fantastica giornata? Io sono propenso a rispondere di sì.
Il discorso dell’eremita si lega a questo: se da una parte l’estremo è la vita social, dall’altra si rischia, per fuggire da tweet, status, filtri fotografici e wiki, di doversi rifugiare su una casetta montana, in mezzo alle capre selvatiche e agli stambecchi, rischiando di diventare animali pure noi. Pazzi, insomma.
L’unica cosa che mi sento di fare è di scaricare il minimo di applicazioni, avere meno account possibili e leggere soltanto le recensioni indispensabili: può darsi che liberando un po’ di spazio nella testa qualcosa di buono esce fuori.
Magari riesco pure ad evitare di leggere qualche cartello.
Magari anche questa è illusione.


sabato 13 luglio 2013

Ignoranza, ignoranza, ignoranza



William Faulkner, il romanziere statunitense de “L’urlo e il furore”, “Oggi si vola” e tante altre belle storie di vita, gongolava per la sua ignoranza, la coltivava. Venuto a Milano a ridosso degli anni cinquanta, mi pare di ricordare fosse nel 1949, alla conferenza stampa professava la sua attitudine: “Sono un contadino, non uno scrittore, non conosco per niente la letteratura italiana”. Questo tipo di vanto ricorreva in quasi tutte le sue conferenze stampa di quegli anni, quando ospite di un Europa che usciva dalla guerra assetata di rinascita culturale, nei vari paesi veniva accolto sì con apparente entusiasmo, ma allo stesso tempo con una canonicità, tipica appunto della sete di cultura, che non riusciva a discernere tra una domanda banale ed una invece di più ampio respiro. Mentre tutti i paesi coinvolti nella guerra europea sembravano non poter più ammettere quella stessa ignoranza che magari aveva anche contribuito a portarli nel baratro nazi-fascista e rincorrevano la conoscenza a perdifiato, William Faulkner arrivava qua con una sfrontatezza che di sicuro apriva nuove riflessioni. Nel momento in cui l’intellettuale europeo era più debole, visto che era stato costretto per almeno cinque anni a mettere la sua cultura sotto naftalina a causa della guerra, e quindi era anche più avvezzo ad abbandonarsi ad una conoscenza prettamente enciclopedica che non lo arricchiva quasi per nulla, arrivava dagli Stati Uniti un’improvvisa sterzata, simile all’aiuto militare datoci in campo: la mente è viva se libera. Punto. La cultura piantata a caso dentro la testa può fare più schiavi della tirannia o dell’ignoranza. Più di Kerouac e della combriccola della beat generation, che invece, per quanto anch’essa frangi barriere, comunque abbracciava una certa devozione verso i maestri del passato, William Faulkner veniva a dirci che dovevamo osservare, e non studiare, e soprattutto battere la vanga sul nostro campo, e non fissarci a vangare quello degli altri e promuoverne i frutti.
Questo veniva predicato sessantacinque anni fa e per un po’ ebbe un suo riscontro. Per almeno quindici anni da quella data (mese più, mese meno) la gente andava anche incontro alle sperimentazioni, ammettendo di fatto una via alternativa al conoscere tanto per conoscere. Poi inevitabilmente si sperimentò sempre di più. Col sessantotto si ruppero tutte le barriere e venivano fuori tutti i fiori che erano rimasti fino ad allora un po’ nascosti. Ma col fatto che ad ognuno era ormai permesso di dire la sua, finivano per parlare molti che in fondo non avevano niente da dire. L’ignoranza, salvo pochi casi, non si univa ad una capacità di osservazione, come per Faulkner, e la decostruzione di ogni cosa non era accompagnata da un’altrettanto energica capacità costruttiva. Insomma, si distrusse tutto, ma non si seppe come tirare su un’alternativa che non assomigliasse a qualcosa di solamente idealistico ed utopico, con tanta pace, uccellini e amore.
La conoscenza della terra di Faulkner era stata soppiantata dal sogno di una terra.
Ancora oggi la conoscenza e l’ignoranza vengono vissute in maniera molto canonica: entrambe, non riescono ad evitare di denigrarsi a vicenda. E se una volta in mezzo c’era vita, oggi sembra esserci soltanto un mare desolato.
Gli ignoranti conoscono, gli intellettuali ignorano, e così via, anagrammate i ruoli.


venerdì 5 luglio 2013

Happy summer holidays

happy 




                    summer
                



              holidays (see you next)






giovedì 4 luglio 2013

Indipendence Day, blank space

I don't want your clothes and your russian bitch

Censored desires


It's not that good to be so happy

Urge for going
Usually, ghosts appeared white-vested

domenica 30 giugno 2013

Time doesn't heal anything, it just replaces memories

Smile this!

They love to lie and she seems to understand it all

Time doesn't heal anything, it just replaces memories 1

Time doesn't heal anything, it just replaces memories 2

martedì 25 giugno 2013

Intercapedine


E' inutile dire (ma mi piace anche l'inutilità) che esista tutto un mondo inesplorato nelle relazioni tra persone. Quello che dico non è la stessa cosa di quello che viene recepito, quello che faccio va nel mondo e gira e viene assimilato e viene capito in milioni di maniere diverse, anche dalla stessa persona, anche a seconda delle giornate. E così ecco qua che io che sono tanto attento al presente o ai passati remoti e ai lontani futuri mi perdo le intercapedini e le pause. Mi perdo quel lasso di tempo e di spazio che sta tra una mia lettera e la risposta, o la mancanza di risposta. Mi perdo le brevi attese, mi perdo quelle interminabili. Mi perdo tutto lo spazio che c'è dal punto A al punto B, perché in macchina corro a tutto ed ho fretta di arrivare, e anche fretta di ripartire. Mentre spingo l'accelleratore dico: devo arrivare il più in fretta possibile, perché più tempo sto in strada, più tempo rubo al posto in cui voglio arrivare. E' una questione di spazi e tempi stabiliti e ben fermi, insomma, ma vorrei poter esplorare tutto quello che c'è di dilatabile. Lo spazio e il tempo di una corsa in macchina, appunto, lo spazio e il tempo che impiega un'attesa.
Le intercapedini sono affascinanti. Nell'intercapedine tra un soffitto e un controsoffito, o tra un pavimento e le fondamenta di un palazzo, per esempio, aleggiano mistero, dimenticanze, situazioni non considerate, topi che nessuno ucciderà finché restano lì dentro, metrature insignificanti nel mondo dinamico esterno. Nell'intercapedine tra un soffitto ed un controsoffitto, a furor di metafora, c'è fantasia Disney. Nel senso, non c'è niente e c'è tutto, è uno spazio dove tutto procede fuori dalle logiche terrene, direi. Uscendo dal lirismo, quando io prendo una penna e scrivo una lettera d'amore su di un foglio precedentemente bianco ed imbuco la lettera lasciando che faccia quello per cui è stata creata, cioè arrivare ad una data persona, io ho davanti un'intercapedine, cioè una pausa di spazio e tempo. In questa intercapedine, nasce un mondo, che è un mondo completamente fantastico. C’è un me che aspetta e fantastica e si domanda e vaga con la testa tra le nuvole; c’è un postino samaritano che prende la mia lettera e decide che quella sarà la prima lettera per importanza a dover essere recapitata, ma c’è anche un postino bastardo che decide di aprirla e buttarla via per dispetto; c’è una lei che è ignara di tutto e che sta vivendo quindi solo nella mia mente, nelle mie reazioni, nei miei pensieri, in quello che sarà possibilmente il nostro futuro.
C’è tutto il mondo intero, che va avanti come sempre, nello spazio di tempo che va tra la spedizione e l’arrivo della lettera, ma che qualcosa di cambiato lo ha, quasi impercettibile, è quel gesto che ha messo in moto delle possibilità per un futuro diverso, che già però ha cominciato a voler esistere, e chissà mai se esisterà. Chissà mai se lui e lei passeggeranno insieme su quelle strade, compreranno un giornale in quell’edicola, si siederanno a quel caffè, nuoteranno in quel mare. E questi sono gli spazi dell’intercapedine, che il tempo ci consegna: spazi che iniziano a formarsi e vivono e vivranno totalmente, se mai sarà loro concesso: se mai quei due, io e lei, prenderemo, alzeremo un pannello del controsoffitto, ed insieme guarderemo sorridenti quanta roba c’è lì in mezzo.
Vorrei poter avere la forza per cibarmi di queste sospensioni, ma sono troppo impaurito da ciò che si promette ma non accade mai, ancora. Vivo nell’entusiasmo, e quindi vivo molto anche nelle delusioni. Ma pensandoci bene, anche tra entusiasmo e delusione c’è una bella intercapedine, quindi magari sto già sul carro.


sabato 22 giugno 2013