L’eco del bosco, il richiamo della foresta, il silenzio
delle foglie, lo sguardo della tigre rimandano a tutto un immaginario fantastico,
ma molto eremitico, un aggettivo che nell’attuale era dei network virtuali ha
sicuramente acquisito un’accezione negativa. La sovrainformazione è sempre
stata un mio cruccio. Da piccolo, avevo appena imparato a leggere, mi lamentavo
con i miei genitori per il fatto di non poter evitare di farlo. Il fatto di
essere costretto a leggere tutto mi mandava fuori di testa: cartelli stradali,
manifesti pubblicitari, insegne di imprese, volantini, strilloni dei giornali. Fu
l’epoca in cui non mi fu più permesso di guardare come una volta, e credo me ne
rendessi già conto. L’immaginazione lasciò troppo spazio all’informazione, a
cominciare dalle sciocchezze: invece di fantasticare sul nome strambo di una
data cittadina e sull’aspetto delle sue strade, dovetti per forza acquisire il
fatto che quella cittadina stava ad appena quattro chilometri dalla mia, e che
anche lei aveva una sagra, un barbiere e un ospedale. Insomma, scomparvero i
draghi, gli arcieri che abitavano i suoi palazzi medievali e i tamburi ogni
sera. A ripensarci, non fu proprio una sciocchezza.
Più in grande ma come allora, la sovrainformazione temo stia
uccidendo grosse parti di me. Questo mi dà molto fastidio. La facilità con la
quale possiamo esprimere un pensiero su facebook o goderci cento immagini
proposteci da altrettante persone comincia ad essere fuorviante. Non credo per
niente che la vicinanza che uno sente verso una persona dall’altra parte del
mondo nello scrivergli una mail e mandargli una propria foto ogni mese sia
davvero vicinanza. Credo piuttosto che si tratti di illusione, e cioè del
sentimento più facile che uno possa provare. Meglio ancora, ho l’impressione
che canali come i social network abbiano tanto successo perché propongono una facilitazione
dei sentimenti e della nostra espressività: il “mi piace” ci dà l’impressione
di aver espresso un’opinione; la fotografia ad una colazione ci fa credere di
aver creato; lo scrivere “wow, ora tutti al mare spiaggia aspettaci” ci
convince di passare una grande fantastica giornata. Tramite queste cose ci
sfoghiamo ma il dubbio è questo: se non li avessimo, saremmo in grado di
sfogarci meglio, cioè qualitativamente meglio?
Esprimeremo un’opinione con almeno dieci parole, fotograferemo qualcosa che non
sia cibo o piedi vestiti di scarpe, ci ingegneremo per passare davvero una
grande fantastica giornata? Io sono propenso a rispondere di sì.
Il discorso dell’eremita si lega a questo: se da una parte l’estremo
è la vita social, dall’altra si
rischia, per fuggire da tweet, status, filtri fotografici e wiki, di doversi
rifugiare su una casetta montana, in mezzo alle capre selvatiche e agli
stambecchi, rischiando di diventare animali pure noi. Pazzi, insomma.
L’unica cosa che mi sento di fare è di scaricare il minimo
di applicazioni, avere meno account possibili e leggere soltanto le recensioni
indispensabili: può darsi che liberando un po’ di spazio nella testa qualcosa
di buono esce fuori.
Magari riesco pure ad evitare di leggere qualche cartello.
Magari anche questa è illusione.